Intervista al giovane partigiano emiliano Giovanni Franzoni

Introduzione:

Giovanni Franzoni era mio nonno. La sua vita è stata tutt’altro che avara di emozioni. La Seconda guerra mondiale l’ha vissuta da vicino e una volta terminata ha deciso di intraprendere un percorso legato al mare.

Ha navigato per anni sulle petroliere della SNAM, sino a raggiungere i vertici del comando, diventando quindi Capitano Superiore di lungo corso.
Mio nonno è sempre stato un tipo davvero tosto. Navigava in giro per il mondo su navi enormi e in condizioni spesso critiche.
Nulla lo spaventava, nemmeno l’esplosione di una cisterna di petrolio che fece saltare in aria il ponte della sua nave. Fece evacuare l’equipaggio e riportò la nave fumante in porto. Altro che Schettino…

Mi sono sempre domandato come facesse mio nonno ad avere un carattere così duro e forte e credo di essermi risposto dopo avere riletto un’intervista che il mio caro amico e avvocato Dario Vasta, gli fece ai lontani tempi delle medie.
In quel frangente ero ancora piccolo, per anni non ho saputo niente di questo prezioso documento.
Avendolo ritrovato, ho deciso di sistemarlo e di riportare alla luce l’esperienza di un giovane ragazzo che, coinvolto in una situazione molto più grande di lui, è diventato un corriere partigiano.

Ho deciso di sistemare questa intervista e di pubblicarla sul mio sito web, non solo per rendere eterno il ricordo di mio nonno, della sua esperienza, ma anche per sensibilizzare le nuove generazioni rispetto al tema della guerra.

Purtroppo i giovani sono spesso disinteressati rispetto alla storia, non la conoscono, la sminuiscono e prendono la guerra come un gioco.
Anche a me piace giocare a Call of Duty, ma non mi sognerei mai di trasportare un videogioco nella realtà. Sento spesso discorsi sulla violenza che mi fanno accapponare la pelle, conscio del fatto che ci sono milioni di persone nella storia che hanno vissuto o combattuto le guerre e sono tutt’altro che un divertimento.

Al momento, precisamente il 21 agosto del 2019, in Italia abbiamo tutto. A parte le solite crisi di governo, la mia generazione vive nel lusso, non ha mai sofferto la fame e non ha mai rischiato di perdere la vita quotidianamente.

Purtroppo il ricordo delle persone che hanno vissuto l’ultimo conflitto mondiale sta sparendo, quella generazione è ormai morta, come mio nonno.
Sono passati ormai 80 anni d’altronde, ma non per questo bisogna dimenticare.
Anzi, bisogna ricordare e baciarsi i gomiti per quello che abbiamo.

Credo che le persone sopravvissute alla guerra siano state temprate da questa e quasi disumanizzate in un certo senso, perché per sopportare certi orrori non puoi essere emotivamente coinvolto fino in fondo, altrimenti vieni distrutto dal dolore.

Cari lettori, vi accorgerete di come mio nonno racconti eventi incredibili, spaventosi, assurdi, a tratti con scioltezza.
Chi ha letto Primo Levi sa cosa intendo.

Pertanto, prima di passare all’intervista, ricordiamoci cosa è successo ai nostri nonni o bisnonni.

Federico Aviano.

Quale è stata la sua esperienza durante la Seconda guerra mondiale?

Mi chiamo Giovanni Franzoni e sono nato il 6 aprile del 1931 a Ligonchio (RE).
Questo significa che quando l’Italia è entrata in guerra nel 1940 avevo nove anni.
I ricordi di quei tempi importanti sono rimasti stampati nella mia mente in maniera indelebile.

Come anticipato, l’Italia è entrata in guerra il 10 giugno del 1940. Ricordo benissimo quel pomeriggio.
Quando la radio annunciò l’entrata in guerra dell’Italia stavo giocando con alcuni amici. In seguito alla notizia cominciai a vedere le persone affacciarsi dalle finestre delle case. Parlavano ad alta voce, commentavano l’evento, alcuni strillavano per lo sgomento.

Se il popolo avesse seguito la propaganda avrebbe potuto pensare alla guerra come a un qualcosa di bello, di positivo. Ma non era così…

Quando la guerra scoppiò vivevo a Livorno con la mia famiglia. La città non fu coinvolta per i primi due anni del conflitto.
Vi fu tuttavia l’attacco di un aereo inglese che sganciò alcune bombe, una delle quali colpì il prestigioso Grand Hotel Palazzo. Ma a parte questo evento, la vita scorreva tranquilla a Livorno, tanto è vero che ebbi la possibilità di frequentare la quarta e la quinta elementare.

I giornali e le radio davano le notizie, che, viste col senno di poi, non rispecchiavano affatto il reale andamento delle cose.
Affermavano infatti che la guerra procedeva a nostro favore. Mi accorsi della falsità di queste notizie il 28 maggio del 1943, ormai alla fine del mio primo anno delle medie.
In mattinata, verso le undici, suoni di sirene ruppero l’armonia di quella bella giornata di sole. In città erano stati costruiti rifugi antiaerei, ma risultarono inutili dinnanzi alla potenza delle bombe sganciate a tappeto dai bombardieri.
I rifugi erano spesso delle semplici fosse scavate nel terreno, ricoperte con delle tavole in legno, le quali erano a loro volta coperte dalla terra. Indubbiamente si era più sicuri all’interno di questi rifugi, piuttosto che all’interno di un palazzo.

Tornando a quel 28 maggio, mi recai con mia madre e mio fratello nel rifugio più vicino a Via San Jacopo in Acquaviva, dove abitavo.
Giunsi nei pressi di quella che un tempo era Villa Cecchi. Mi ricordo che aveva un bel parco, deturpato da un terrapieno scavato innanzi al rifugio, il cui scopo era quello di deviare eventuali detriti derivanti da un’esplosione.
La villa era di proprietà del Generale Belluso, che conoscevo bene perché il figlio era un vecchio amico di mio padre.

Come detto, quella mattina le sirene suonarono, annunciando un bombardamento imminente. Erano suonate anche altre volte in passato, ma non vi era mai stato un bombardamento.
Così pensai si trattasse di una semplice esercitazione. Mi sbagliavo. Quello fu il primo bombardamento su Livorno.

La mia famiglia rimase indenne, anche se temetti per l’incolumità di mio padre. Egli lavorava al porto, il quale fu bersagliato da una delle due ondate.
Per fortuna mio padre tornò a casa sano e salvo, facendomi versare le uniche lacrime di felicità in quella giornata terribile.

La seconda ondata di bombardamenti colpì la zona industriale e fu un disastro. I fumogeni preparati prima del bombardamento sia nelle principali piazze della città, che nei luoghi più importanti di questa, fecero irritare i piloti Alleati piuttosto che confonderli.
Questi sganciarono le bombe a tappeto, causando enormi danni. Ci furono ulteriori ondate minori, che terminarono all’alba del giorno seguente.
Terminato l’attacco, Livorno era semidistrutta. Lo spettacolo era orrendo e terribile. Non occorre che descriva l’abominio presente nelle strade ormai irriconoscibili.

Mio padre decise immediatamente di fuggire da Livorno, verso Collesalvetti, un paesino poco lontano. Quella sera il viaggio fu lungo ed ansioso, me lo ricordo come se fosse oggi.
A Collesalvetti risiedeva un amico di mio padre, in una villetta vicino all’attuale comune. Fummo ospitati da lui e trattati al meglio.
Rimanemmo lì per circa un mese e mezzo.
Molti altri livornesi decisero di lasciare la città ormai morta e si diressero verso la campagna.

Dopo un po’ di tempo, degli aerei americani sorvolarono Collesalvetti sganciando dei volantini dalle loro grandi pance. Sopra di essi era scritto che il 28 giugno sarebbero tornati per bombardare nuovamente la città.
Puntualissimi, i bombardieri tornarono in un numero spropositato, da far gelare il sangue. Chiudendo gli occhi riesco a rivivere quei momenti come se stessero accadendo adesso.

Mio padre era in porto quel giorno, al lavoro. Io, mia madre e mio fratello eravamo a Collesalvetti. Dalle colline riuscivo a vedere perfettamente delle bestie alate volare con rumore assordante sopra alla mia città e sul porto.
Mi sentivo come a teatro, di fronte ad uno spettacolo incredibile e pauroso. Mi ricordo che il mare era tranquillo quel giorno. La natura era profondamente diversa dalle azioni degli uomini.

Le bombe sganciate dagli aerei erano ben visibili, riflettevano i raggi solari luccicando. Durante la caduta fischiavano e quando colpivano un bersaglio si udiva lo schianto, il suono della distruzione.

Livorno fu colpita e distrutta in varie zone.
Quella centrale, dove adesso si trova Piazza Grande, fu rasa al suolo.
Mio padre fortunatamente scampò anche a questa strage. Capì che Livorno era ormai invivibile, sia a causa dei bombardamenti, che dei viveri e dell’igiene.

Circa quindici giorni dopo i bombardamenti, la mia famiglia partì verso l’Emilia, la mia terra natia. Mia nonna materna viveva in provincia di Reggio Emilia, al di là della Garfagnana, esattamente nel comune di Ligonchio.
In questo paesino sull’Appennino ci trasferimmo nel vero senso della parola.
Quella zona la conosco bene avendoci passato molte estati della mia infanzia. Avevo dei bei ricordi e di fronte agli orrori di Livorno, per me fu una gioia tornare a Ligonchio.

Il colmo in quella situazione assurda era che nella zona di Ligonchio, ancora intonsa rispetto al conflitto, i giornali-radio affermavano che la guerra procedeva al meglio.
Io conoscevo invece la realtà delle cose.

A quel tempo ero un Balilla ed ero piuttosto inquadrato a causa del regime, influenzato in tutto e per tutto.
Una volta sfollato, non andando più a scuola, la mia mentalità cambiò nettamente.
Iniziai a perdere le ideologie del partito e a guardare in faccia la realtà.

Il ricordo più importante che ho del regime fascista riguarda quando ancora mi trovavo a Livorno. Frequentavo la scuola ed avevo le mie compagnie di amici. Tra questi c’era un certo Torelli. Andavo a giocare a casa sua, nonché Villa Torelli, vicino al Grand Hotel Palazzo.
A casa sua non andavo solo io, ma anche altri giovani, come i fratelli Fontana. Il loro padre era Ufficiale di Marina, Comandante di una nave che fu silurata ed affondata. Morì in questo evento.
Nella piazza davanti alla vecchia scuola Brin ci fu la cerimonia di conferimento della medaglia d’oro al Comandante Fontana. Questo fatto mi toccò, avvicinandomi ai problemi della guerra, anche se era difficile per ragazzi come me rendersi conto di cosa significasse una nave che affondava.

Tornando alla mia vita a Ligonchio, era abbastanza tranquilla.
Il vero problema accusato dalla gente era il seguente: dal fronte non arrivavano notizie e al contempo molti giovani erano costretti a partire, ad arruolarsi.

Una volta che la guerra entrò nel vivo si iniziò a sapere che qualcheduno era morto, chi da una parte, chi dall’altra. Iniziate a giungere queste notizie, l’opinione pubblica iniziò a criticare la guerra, sino a odiarla.
Fortunatamente non avevo parenti al fronte e non fui toccato da terribili notizie.

I viveri non mancavano sull’Appennino e questa fu la fortuna di molti, oltre che la mia.
Il disagio più grosso che ho avuto in quel periodo è il non essere potuto andare a scuola per due anni. C’erano solamente le scuole elementari in paese, mentre io ero alle medie.
Sarei dovuto andare sino a Castelnovo ne’ Monti per frequentare la scuola media, il che era improponibile data la situazione di allora. Sarei dovuto infatti partire alle sette di mattina e tornare alle sette di sera ogni giorno, da solo. Ma non c’era esclusivamente questo problema.

Ligonchio si trovava sulla sponda partigiana rispetto al fiume Secchia, mentre sull’altra sponda c’erano i Tedeschi. Tutti i paesi lungo questa contrada erano presidiati dai Tedeschi, raggiungere Castelnovo ne’ Monti sarebbe stato impossibile.
Formatesi le prime organizzazioni partigiane sono cominciate le incursioni contro i vari presidi tedeschi. E i Tedeschi non stavano di certo a guardare. Attuavano controffensive nella zona partigiana, nonché la mia.

I Tedeschi non si fermarono qui. Nell’ultimo periodo della guerra cominciarono i loro rastrellamenti in tutti i paesi della zona. Il più famoso fu eseguito dalla divisione Monterosa, ricca di italiani, che occupò tutta la zona.

Ci fu un episodio che mi riguardò da vicino a proposito di questi pesanti rastrellamenti.
I partigiani erano sempre di vedetta a Ligonchio, sorvegliavano l’area.
Gli abitanti avevano sempre uno zaino pronto in caso di attacco, contenente una coperta e il cibo. Sarebbero scappati verso i monti, verso la macchia, dove i Tedeschi non si sarebbero spinti.

A sorpresa, un giorno i Tedeschi irruppero a Ligonchio. I Partigiani diedero l’allarme in concomitanza del loro arrivo.

Io e mio padre scappammo.
Nel mio caso scappare era d’obbligo. Essendo parecchio alto per la mia età, i Tedeschi mi avrebbero sicuramente scambiato per un Partigiano.
Inoltre i Tedeschi sapevano che i ragazzini come me facevano da corrieri ai Partigiani, per cui erano punibili come i Partigiani adulti. Ossia, nella migliore delle ipotesi, con un biglietto di sola andata per la Germania.
Io stesso facevo il corriere, quindi portavo i messaggi dei Partigiani da una paese all’altro, Mi è capitato di farlo anche per quaranta chilometri, in bicicletta fortunatamente.

Tornando all’incursione tedesca, io e mio padre scappammo verso i monti, andando in cerca di luoghi dove si pensava non vi fossero rastrellamenti. Ci lasciavamo guidare dall’istinto, non potevamo fare altro.
Arrivammo sulle pendici del Monte Cusna e dall’alto riuscivamo a scorgere Ligonchio, da cui si alzavano colonne di fumo. I Tedeschi stavano bruciando il paese senza pietà.
La nostra casa fu salvata da una vicina, la quale tolse il materiale incendiario lasciato dai Tedeschi.

Io e mio padre eravamo impotenti di fronte a quel tremendo spettacolo. Vedevamo il nostro paese bruciare, con la paura che i nostri cari, ovvero nonna, mamma e fratello, potessero rimanere coinvolti nelle rappresaglie.

Nel giro di poche ore iniziarono ad arrivare voci secondo cui i Tedeschi avevano bruciato vari paesi nella zona e si stavano dirigendo verso di noi. Qualcheduno urlò: «I Tedeschi, i Tedeschi!»

Nemmeno il tempo di prendere gli zaini, che i Tedeschi erano già in paese. Date le circostanze, io e mio padre decidemmo di fare finta di niente, evitando di essere inseguiti in una fuga. Il paese si immobilizzò.
Per fortuna i Tedeschi avevano altri affari da sbrigare, ovvero raggiungere altri paesi con una maggiore concentrazione di Partigiani, per cui proseguirono oltre.

I Partigiani venivano nascosti dalle persone, in piccoli gruppi, al fine di scampare alle costanti ricerche frenetiche dei Tedeschi.
Per quel che riguarda la mia esperienza, un giorno ospitammo quattro Partigiani nella cucina della casa di Ligonchio.
Non era grande, ma i quattro accettarono ugualmente e di buon cuore l’ospitalità ricevuta.
Mi ricordo di loro, giovani, timorosi, incerti sull’avvenire.
Provavo tenerezza per quei quattro ragazzi, lontani da casa, a combattere una guerra che non piaceva a nessuno.
Io e la mia famiglia percepimmo che erano affamati da come guardavano un sacco di patate.
Ci chiesero se potessero cucinarle per loro. Ovviamente accettammo. Il burro lo avevano con loro, razionato presumibilmente, e si accontentarono di pasteggiare con una patata a testa.
Non chiesero altro, non desideravano affatto disturbare.
Il tutto fu simpatico, reso ancora più simpatico dalla triste cornice che circondava la situazione.

La mattina seguente i Partigiani partirono.
Nella stessa mattinata, prima di mezzogiorno, arrivarono in un paese vicino al nostro e a causa della mancata guardia delle vedette partigiane, i quattro ed altri intrapresero uno scontro furioso con dei Tedeschi.

Morirono sei Partigiani nella battaglia. Vennero caricati su un camion e portati a Ligonchio per essere seppelliti.
Mi ricordo tra questi un ragazzo sui venticinque anni. Mi è rimasto impresso perché portava un maglione bianco con una serie di ricami lavorati.
Li seppellimmo in paese, senza nemmeno sapere chi fossero.
Finita la guerra vennero delle persone a cercarli e tra queste c’era anche la madre del giovane di cui ho parlato prima, una signora di La Spezia. Le tombe furono riesumate e portate via.

In quegli stessi tempi incominciarono i lanci di materiale da parte degli Alleati ai Partigiani. I primi ad arrivare furono i paracadutisti inglesi. Mano a mano che questo flusso aumentò, aumentarono anche le pressioni da parte dei Tedeschi. Le deportazioni erano all’ordine del giorno e io stesso assistetti ad un episodio notevolmente pesante.

Dopo l’ennesimo allarme, io e mio padre scappammo da Ligonchio verso un paese dove avevamo degli amici.
Lungo le linee dell’alta tensione c’erano delle postazioni collegate telefonicamente. I guardalinee passavano le informazioni che gli arrivavano ai Partigiani e consentivano di fuggire prima che arrivassero i Tedeschi.
Saputo da costoro che il nostro paese era libero, tornammo verso casa.
Arrivati nella cosiddetta campagna alta del paese, ci fermammo a parlare con un gruppo di giovani.
Ad un tratto giunse mia cugina. Io e mio padre le chiedemmo di riferire a mia madre e a mio fratello che eravamo tornati e che ci saremmo fermati lì per un po’.
Ci trovavamo all’ombra di un grosso faggio, ai piedi di una collinetta da cui passava una piccola strada e parlavamo con questi giovani.
Mio padre era seduto, con le spalle rivolte verso la collinetta e guardava il fiume.
Io invece ero in piedi rivolto verso di lui. Mio padre, che era il più in alto di tutti, fu il primo a vedere i Tedeschi che avanzavano verso di noi silenziosamente.
Mi disse di buttarmi a terra dentro un cespuglio e così feci prontamente, dato che vivendo in quella situazione quei gesti erano automatici.
I Tedeschi puntarono i fucili verso i giovani che erano con noi. Gli ordinarono di scendere e così fecero, a braccia alzate. I Tedeschi li catturarono, non seppi più nulla di loro.

Mio padre mi fece capire che dovevamo raggiungere la strada in cima alla collina per scappare. Così ci alzammo velocemente, ma i Tedeschi ci videro.
Probabilmente si aspettavano che ci fosse ancora qualcuno nascosto in quella zona.
Ci spararono senza tentennamenti. Sentii le pallottole vibrare nell’aria.
Non ci colpirono, ci andò bene.
Raggiungemmo la strada e iniziammo a scendere dall’altra parte della collina. Ad un tratto mio padre cominciò ad urlare: «Alfredo, Alfredo!» L’uomo comprese immediatamente la situazione e cominciò a correre con noi.
La mia fortuna era quella di conoscere quelle campagne come le mie tasche, quindi scappare non era per me un problema.
Giungemmo in un terreno di mia nonna che confinava con un torrente, asciutto in quel momento. Ricordo che c’era un grosso lastrone di pietra sotto al quale passava il corso d’acqua.
Potevi infilarti facilmente sotto di questo per non essere visto. Così io e mio padre ci nascondemmo, aspettando che i Tedeschi se ne andassero.

Stavano compiendo dei rastrellamenti, avevano fretta e non sarebbero rimasti a lungo nella mia zona. I loro camion carichi di persone erano facilmente attaccabili dai Partigiani.
I rastrellamenti erano quindi un rischio sia per noi, che per loro.

A sera inoltrata cominciò a piovere forte. Io e mio padre uscimmo dal nostro nascondiglio e ci riparammo sotto a un albero, con le nostre coperte addosso.

In piena notte giunsero degli aerei americani, i quali sganciarono una serie di bengala sopra alle centrali elettriche, per poi bombardarle. Dato che le centrali erano incassate dentro una gola tra le montagne, non ci furono morti fra i civili.

Ad un tratto mio padre mi chiese se ricordavo la strada per Gollo, la quale passava per un versante del Monte Cavalbianco ed era poco frequentata. Io risposi di sì.
Così partimmo alla volta di Gollo, fradici, ma salvi.
Prendemmo la strada a due chilometri dalla nostra partenza, sempre in allerta al minimo rumore, ci destava anche il fruscio delle foglie mosse dal vento.

In quella zona risiedevano dei pastori che avevano una capanna ricoperta di foglie al limite di un grosso castagneto. Li trovammo attorno ad un focherello, non lontano dalla capanna e spiegammo loro la situazione.
Ci ospitarono dentro, al caldo, con grande gentilezza. Dormì piacevolmente quella notte, al calduccio.

La mattina seguente io e mio padre ripartimmo e giungemmo al paese di Casini Vidalli, nonché un gruppo di case che i pastori utilizzavano quando portavano a pascolare i loro greggi in estate.
Una signora gentilissima ci vide e ci offrì un pezzo di pane, insieme ad una tazza di latte. Devo ammettere che non desideravamo altro.
La situazione a quei tempi era questa: appena si vedevano dei vagabondi, la prima cosa da fare era offrirgli un pezzo di pane, perché si sapeva che in giro c’era solo la fame.

Tornado ai fatti del giorno precedente, nel frattempo tutti i giovani della zona erano stati portati nel mio paese dopo i rastrellamenti.
Quello era il luogo di raduno dei Tedeschi.
Quei ragazzi furono deportati in Germania, a Mauthausen e fra questi c’era anche il fidanzato di mia cugina. Lui riuscì a tornare a casa, uno dei pochi. Almeno questa storia ha un lieto fine, perché sposò mia cugina una volta tornato.

Alfredo, l’uomo che scappò dai Tedeschi insieme a noi, riferì ai paesani di non averci più visto dopo la fuga. Un nostro amico, dipendente delle centrali della zona, diede il suo bracciale a mia mamma, che lo avrebbe fatto indossare a mio padre una volta trovato. Il vantaggio dei dipendenti delle centrarli era quello di portare questo bracciale dato dai Tedeschi, che li distingueva. Si potevano muovere liberamente da un paese all’altro, vista la loro fondamentale utilità.

Mia madre era pronta per partire e cercarci, ma la trovammo prima noi, a casa.
Il nostro viaggio di ritorno fu tutt’altro che semplice, però, perché i rastrellamenti continuavano. Da Capanne arrivammo ad Ospedaletto e come vi arrivammo vedemmo un uomo correre ed urlare: «I Tedeschi, i Tedeschi!».

Io e mio padre avevamo gli zaini a tracolla e per evitare di essere sospettati li nascondemmo.
Ci fermammo in quel paese, consci del fatto che ormai era impossibile scappare senza essere visti. I Tedeschi arrivarono e la prima cosa che fecero fu imporre posti di blocco in tutto il paese.
Io e mio padre, con un gruppetto di altri uomini, fummo portati dentro la cucina di una casa.
Mio padre portava in tasca il suo vecchio libretto di navigazione e lo fece vedere ad un ufficiale tedesco, come documento di riconoscimento.
Il Tedesco lo guardò dubbioso, pensando: “Tu, col libretto di navigazione, che ci fai quassù?”
Mio padre mantenne il sangue freddo e spiegò che eravamo sfollati. Si inventò che eravamo venuti in montagna per vendere i nostri averi. Una frescata ovviamente, come dico io.

Non rientrando in qualche particolare categoria di individui, l’ufficiale ci lasciò in pace.
In ogni caso io e mio padre rimanemmo in quel paese sino a pomeriggio inoltrato.
Sentivamo i colpi di mitragliatrice echeggiare nell’aria.
L’ufficiale che ci aveva fermato ci intimò ad andarcene, forse per non assistere all’orrore che stava per compiersi.
Noi, increduli, ci mettemmo nuovamente in viaggio.

Incontrammo un guardalinee che ci disse di andare verso il Passo della Pradarena, perché non avremmo dovuto trovare i Tedeschi da quelle parti.
Giungemmo ad un valico e salimmo dalla parte opposta. Arrivati in cima, io e mio padre ci sentimmo gelare il sangue.
Sotto ai nostri piedi era pieno di soldati tedeschi, i quali erano assopiti o sdraiati a riposarsi. Facendo finta di niente attraversammo il prato in cui si erano accampati i Tedeschi.
Circa dieci minuti dopo incontrammo una colonna di Tedeschi e gentilmente la salutammo, per poi oltrepassarla.
I Tedeschi non ci guardarono neppure, avevano altre cose a cui pensare.

In fondo alla colonna c’erano due cavalieri italiani, i quali ci osservarono ed iniziarono ad urlare: «Partigiani! Partigiani!».
I Tedeschi dovevano essere immersi veramente in profondi pensieri e riflessioni, perché nessuno diede corda ai due cavalieri, che di cavalleresco avevano ben poco.
La sera arrivammo finalmente a casa, sani e salvi.

Questa è stata una delle piccole avventure del periodo bellico, vissuta in una zona partigiana e particolarmente controllata dai Tedeschi.
Ricordo che i Partigiani allestivano campi minati per i quali sarebbero passati i Tedeschi con i loro mezzi e con le loro armi, oppure compivano imboscate a colpi di mitragliatrice.
I Partigiani non avevano armi pesanti, di conseguenza la loro tattica consisteva nel mordere i fianchi dei Tedeschi, per rallentarli e indebolirli.

Durante la grossa ritirata tedesca, la strada che andava dal Tirreno alla Val Padana e che passava per Reggio Emilia, quindi per la mia zona, era spesso sorvegliata dai Partigiani.
Ho un ricordo particolare rispetto a questa strada.
Quando passò la prima colonna americana vidi dei soldati neri. Oggi vedere delle persone di colore è normalissimo, ma per quel tempo era qualcosa di inusuale.

Una volta liberata l’Emilia dagli Alleati, mio padre e mia madre si recarono a Livorno per vedere cosa ne fosse rimasto, specialmente della nostra casa.
Io, mio fratello e mia nonna aspettammo il loro ritorno a Ligonchio.
Pagammo poi una coppia di Americani che caricò le nostre cose su un camion militare e ci portò a Livorno nel maggio o giugno del 1945.

A CURA DI:

Federico Aviano

e

Dario Vasta (il suo blog)

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7 commenti

  1. La leggo meglio quando ho un attimo. Ho letto la tua introduzione e qualche parte. Ti dico che hai fatto una bellissima cosa a condividerla. Ho vissuto sensazioni simili alla tua quando ho lavorato agli scritti di mio padre sui racconti di guerra di mio nonno.
    Anche se sicuramente la guerra qui è finita prima rispetto a dove abitava tuo nonno e l’esperienza partigiana non l’abbiamo quasi vissuta

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  2. Ti ringrazio per aver voluto condividere questo drammatico documento di un tempo non troppo lontano, del quale gli Italiani, purtroppo, stanno perdendo memoria. Mi ha molto impressionato il passaggio nel quale tuo nonno ricordava che in quegli anni era doveroso e spontaneo cercare di condividere il poco cibo che si aveva con gli altri, in nome di una comune necessità di sopravvivenza…grazie davvero.

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    1. Posso immaginare quanto sia importante per te una testimonianza diretta, vista la tua passione per la storia e per questo periodo in particolare.
      Sono contento di averti fatto emozionare e spero che in tanti, come te, capiscano l’importanza di questo messaggio

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  3. Ho letto tutto d’un fiato.
    Non ti nego che mi sono emozionata nel leggere il racconto di tuo nonno.
    Hai fatto bene a condividerlo sul blog. È la testimonianza di un passato che non deve essere dimenticato.
    Mio nonno ha 93 anni ora e spesso mi racconta storie del periodo della guerra. Anche se le conosco a memoria, lo ascolto sempre perché so che non potrò farlo ancora a lungo

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